Insediamenti israeliani
2017 situazione degli insediamenti
Attualmente, circa 621.000 coloni israeliani risiedono nei Territori palestinesi occupati (200.000 dei quali a Gerusalemme Est) in violazione del diritto internazionale. Dal 20 gennaio 2017, giorno dell’inaugurazione della presidenza statunitense di Donald Trump, il governo israeliano ha autorizzato la costruzione di altri 6219 nuclei abitativi illegali, 719 dei quali a Gerusalemme Est.
La politica israeliana di insediare civili in territori occupati viola il diritto internazionale umanitario e costituisce un crimine di guerra.
All’inizio di febbraio, il parlamento israeliano ha approvato una legge che consente al governo di requisire terreni privati palestinesi su cui sono stati costruiti degli insediamenti. Questa legge compromette la possibilità dei proprietari di reclamare le loro terre su cui vivono i coloni, nonostante la presenza di questi ultimi sia considerata illegale dal diritto internazionale. L’organizzazione non governativa Peace Now ha stimato che il provvedimento legalizzerà retroattivamente 53 insediamenti e avamposti, consentendo l’espropriazione di 80 ettari di terreni privati palestinesi, e rischia di incentivare ulteriori espropri. Una coalizione di 17 consigli municipali palestinesi e tre organizzazioni per i diritti umani ha chiesto all’Alta corte israeliana di annullare la legge.
Questi sviluppi seguono di poco la risoluzione adottata dal Consiglio di sicurezza nel dicembre 2016, la prima del genere in quasi 40 anni, in cui si chiede a Israele di porre fine alla costruzione degli insediamenti.
Le violazioni dei diritti umani connesse alla costruzione e all’espansione degli insediamenti sono una caratteristica costante dei 50 anni di occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e (fino al ritiro del 2005) della Striscia di Gaza: limitazioni arbitrarie al movimento, demolizioni, trasferimenti forzati di comunità palestinesi, restrizioni all’accesso dei palestinesi alle risorse naturali e attacchi violenti e non contrastati dei coloni israeliani contro i palestinesi e le loro proprietà.
Limitazioni alla libertà di movimento
Israele impone limitazioni alla libertà di movimento dei palestinesi residenti nella Cisgiordania occupata: posti di blocco, interruzione delle strade, strade per soli coloni, ostacoli causati dal muro o barriera di sicurezza. Israele impone inoltre gravi restrizioni all’ingresso dei palestinesi a Gerusalemme Est, annessa illegalmente.
Le limitazioni alla libertà di movimento nella Cisgiordania occupata sono imposte principalmente per proteggere gli insediamenti e i loro abitanti, per migliorare i collegamenti tra gli insediamenti e Israele e per creare spazio destinato a future costruzioni ed espansioni. In sintesi, Israele limita la libertà di movimento di 2.900.000 palestinesi in favore di 421.000 coloni la cui presenza è, ai sensi del diritto internazionale, illegale.
Queste restrizioni arbitrarie e discriminatorie costituiscono una forma di punizione collettiva e pregiudicano gravemente la possibilità dei palestinesi di lavorare, avere accesso a cure mediche, studiare e visitare i familiari. La costruzione del muro o barriera di sicurezza all’interno dei Territori palestinesi occupati – cioè sul lato palestinese della frontiera internazionalmente riconosciuta nel 1967 – è di fatto servita a Israele per annettere illegalmente terre palestinesi, consentendo ai coloni insediati su quelle terre di vivere come se facessero parte di Israele. Ciò ha significato tagliare a metà le comunità palestinesi, in alcuni casi dividere le famiglie dalle terre indispensabili per la sopravvivenza e, ancora, impedire ai palestinesi di andare a lavorare a Gerusalemme Est o in Israele. La limitazione della libertà di movimento dei beni e delle persone nei Territori palestinesi occupati ha avuto ripercussioni per l’economia palestinese: la disoccupazione nel 2016 era salita al 27 per cento, rispetto al 12 per cento del 1999.
Per quanto riguarda la Striscia di Gaza, sebbene nel 2005 l’abbia evacuata e abbia smantellato i suoi insediamenti, Israele mantiene un controllo effettivo sul territorio. Da 10 anni è in vigore un blocco terrestre, marittimo e aereo che limita gravemente l’import-export di petrolio, cibo, materiali da costruzione e altri prodotti essenziali e la possibilità per gli abitanti di viaggiare. Anche in questo caso, si tratta di una punizione collettiva.
Demolizioni e trasferimenti forzati
Gli accordi di Oslo del 1995 hanno diviso la Cisgiordania occupata nelle aree A, B e C. Sebbene considerata provvisoria in attesa del pieno trasferimento di autorità ai palestinesi, questa divisione permane tuttora.
L’area A costituisce circa l’8 per cento della Cisgiordania occupata e comprende la maggior parte delle città palestinesi: è controllata dal punto di vista dell’amministrazione civile e della sicurezza dalle autorità palestinesi. L’area B costituisce circa il 22 per cento: Israele ha il controllo sulla sicurezza e i palestinesi si occupano di questioni civili. L’area C, dove abitano circa 300.000 palestinesi, comprende oltre il 60 per cento della Cisgiordania occupata: Israele ha il pieno controllo in materia civile e di sicurezza e può imporre piani e progetti edilizi che limitano fortemente la possibilità dei palestinesi di costruire abitazioni e infrastrutture di fondamentale importanza.
L’amministrazione civile israeliana nega quasi sempre i permessi edilizi ai palestinesi, che dunque non hanno altra scelta che quella di costruire senza autorizzazione. Di conseguenza, molti palestinesi rischiano la demolizione delle loro abitazioni e lo sfollamento. Attualmente nell’area C risultano pendenti 11.000 sentenze di demolizione, riguardanti 17.000 costruzioni palestinesi.
Israele limita gravemente anche la possibilità di edificare a Gerusalemme Est. I palestinesi possono costruire solo sul 13 per cento del territorio e le licenze edilizie sono emesse assai raramente. I palestinesi a rischio di essere sfollati dalle loro case sono 90.000. In questo modo, potrà proseguire la costruzione e l’espansione degli insediamenti illegali israeliani, che già coprono il 35 per cento del territorio.
Sia il trasferimento forzato che le ampie distruzioni o appropriazioni di proprietà, se compiute illegalmente e in modo esteso, costituiscono gravi violazioni della IV Convenzione di Ginevra e dunque crimini di guerra.
Accesso negato alle risorse naturali
Le confische, le requisizioni e le appropriazioni di terre per gli insediamenti, così come la costruzione di strade riservate ai coloni e delle relative infrastrutture hanno un impatto devastante sui diritti dei palestinesi al lavoro e a un adeguato standard di vita. Le terre e le risorse perse a favore dei coloni non possono essere più sfruttate dalla popolazione palestinese per lavorare e generare reddito.
L’area C, il cui accesso è fortemente limitato ai palestinesi, comprende la maggior parte delle risorse naturali necessarie per sviluppare e mantenere un sistema economico pienamente funzionante: terreni fertili, cave di roccia, l’acqua e i minerali contenuti nel mar Morto. Ai circa 6000 ettari di terra palestinese su cui sorgono le abitazioni dei coloni devono essere aggiunti altri 9300 ettari di terreni agricoli che vengono coltivati dagli stessi coloni e ulteriori 1365 ettari su cui sorgono 20 zone industriali, a loro volta gestite dai coloni.
Il limitato accesso dei palestinesi alle risorse naturali è esemplificato anche dall’iniqua ripartizione delle acque nei Territori occupati. Israele viola il diritto dei palestinesi all’acqua, controllando e limitando il loro accesso a un livello che non basta a soddisfare le necessità della popolazione palestinese né risulta distribuito equamente. Le piscine, i prati ben innaffiati e gli ampi terreni irrigati nelle colonie israeliane contrastano con i villaggi palestinesi i cui abitanti a malapena riescono a soddisfare i loro bisogni di acqua per uso domestico, per non parlare del livello necessario per sostenere le attività agricole.
L’accesso discriminatorio all’acqua ha anche un impatto sul diritto dei palestinesi al massimo livello ottenibile di salute. Molte comunità palestinesi vivono con neanche 20 litri d’acqua al giorno pro-capite, il minimo raccomandato dall’Organizzazione mondiale della salute. Oltre a violare numerosi diritti umani, lo sfruttamento delle risorse naturali dei Territori palestinesi occupati a beneficio dei coloni viola l’obbligo di Israele – previsto dal diritto internazionale umanitario – di amministrare territori occupati nell’interesse della popolazione occupata.
La violenza dei coloni
All’interno dei Territori palestinesi occupati sia i civili palestinesi che quelli israeliani subiscono atti di violenza. Tuttavia, i tentativi dei palestinesi di denunciare gli autori delle violenze vengono spesso accolti con indifferenza dalle autorità israeliane.
Secondo l’organizzazione non governativa israeliana Yesh Din, nel 2015 l’85 per cento delle indagini su reati “motivati ideologicamente” contro i palestinesi è stato chiuso per carenze dell’azione di polizia e solo il 7,3 per cento delle denunce ha condotto a un procedimento giudiziario.
Al contrario, quando i palestinesi sono sospettati di aver commesso atti di violenza contro i coloni, le forze israeliane lanciano spesso operazioni su vasta scala di arresti e detenzioni, imponendo il coprifuoco sui villaggi e sulle città palestinesi. A differenza degli israeliani, i sospetti palestinesi sono processati da tribunali militari privi delle fondamentali garanzie sul processo equo, del minimo livello d’indipendenza, di regole procedurali chiare, che non prevedono la presunzione d’innocenza e l’obbligo di ascoltare testimoni o esaminare tutti gli elementi di prova.
I coloni attaccano sia i civili palestinesi che le loro proprietà. Il clima d’impunità di cui godono i coloni che compiono atti di violenza ha prodotto un clima di paura all’interno delle comunità palestinesi che vivono o lavorano su terre vicine agli insediamenti.