Emigrazione Marchigiana e Italiana
Politiche dell'UE in materia di migrazione e asilo
Emigrazione Marchigiana e Italiana
https://it.wikipedia.org/wiki/Emigrazione_italiana
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L’evoluzione storica dei flussi migratori in Italia e n Europa
http://www.unescochair-iuav.it/wp-content/uploads/2015/01/UR-AN_Bettin-Cela_def.pdf
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Le Marche e l’emigrazione
Museo dall'emigrazione marchigiana
http://www.museoemigrazionemarchigiana.it/le-marche-e-lemigrazione/
Nonostante l’emigrazione inizi piuttosto tardivamente nella nostra regione, nel primo quindicennio del Novecento le Marche sono, dopo il Veneto, la regione del Centro-Nord che contribuisce maggiormente al mercato internazionale del lavoro. La meta prediletta è l’Argentina, dove i marchigiani, prima della Grande guerra, arrivano a rappresentare l’11% di tutti gli immigrati italiani.
Molti scelgono gli Stati Uniti con le grandi città industriali, le miniere della Pennsylvania o le piantagioni strappate al paludoso delta del Mississippi, dove sognano di diventare proprietari della terra. Partono contadini e minatori, ma anche falegnami, sarti e calzolai: artigiani che nei piccoli borghi e nelle aree urbane marchigiane vedono le loro economie minacciate dall’avanzare della grande produzione industriale nell’Italia di inizio secolo.
Con la prima guerra mondiale si interrompono i flussi migratori per riprendere subito dopo soprattutto sulle rotte continentali, quelle di Francia, Germania, Svizzera e Belgio, la terra delle miniere. Un nuovo sussulto migratorio avviene dopo la seconda guerra mondiale: si riscoprono mete americane prima poco frequentate, come il Canada e il Venezuela, si consolidano quelle tradizionali di Francia, Germania e Belgio e se ne impone una nuova, l’Australia.
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Martina Masi
Emigranti Italiani, Chi sono, da dove partono, dove vanno
https://www.lenius.it/emigrati-italiani/
Siamo talmente concentrati a parlare di immigrazione in Italia che a volte ci dimentichiamo degli emigrati italiani. Eppure il nostro è fondamentalmente un popolo di migranti: lo è stato nella storia e lo è anche oggi. Facciamo due conti per capire meglio le dimensioni, la natura e l’evoluzione del fenomeno degli italiani all’estero.
Emigrati italiani: un po’ di storia
Per un panorama completo sulla storia delle migrazioni, che coinvolge anche tempi più antichi e altre popolazioni, potete leggere questo nostro articolo. Qui ci occupiamo di emigrati italiani nel periodo successivo all’unità d’Italia, un periodo che ci ha visti protagonisti del più grande esodo della storia moderna. Possiamo suddividere l’emigrazione italiana meno recente in quattro fasi temporali.
La prima, dal 1876 (prima rilevazione ufficiale) al 1900, è dovuta a fattori socio-economici, all’inizio era diretta prevalentemente verso Francia e Germania, poi verso Sud America e, in misura più ridotta, Nord America. Attraverso movimenti prevalentemente spontanei e clandestini, espatriarono, soprattutto dal nord Italia, circa 5,3 milioni di persone. Parliamo di una quota enorme della popolazione, che in quel periodo oscillava intorno ai 30 milioni di abitanti. In pratica oltre il 15% della popolazione.
La grande ondata di emigrati italiani proseguì dal 1900 al 1914. Questa seconda fase vede protagonisti soprattutto emigrati dal centro-sud Italia, espulsi dal settore agricolo e dalle aree rurali senza trovare alternativa in un settore industriale ancora traballante. Questa fase, definita la Grande Emigrazione, fu prevalentemente extraeuropea, anche se rimasero mete europee privilegiate la Francia e la Germania, a cui si aggiunse la Svizzera. Lo scoppio della prima Guerra Mondiale e la conseguente pericolosità degli spostamenti pose fine a questa fase, in cui lasciarono l’Italia oltre 9 milioni di persone, pari a un quarto della popolazione totale.
Tra le due guerre mondiali – Dal 1918 al 1939 – assistiamo a una fase di decrescita dell’emigrazione italiana per via delle restrizioni legislative adottate dagli Stati di approdo, per la crisi economica del ‘29 e per la politica restrittiva e anti-emigratoria perseguita dal fascismo. In questo periodo il decrescere dell’immigrazione extraeuropea portò all’aumento dei flussi europei, verso Francia (meta prediletta degli oppositori al regime) e Germania (dopo la firma del Patto d’acciaio). Si aggiunsero gli spostamenti verso l’Africa coloniale, grottesco tentativo di espansionismo imperiale. In questo ventennio emigrarono comunque 3,2 milioni persone.
Infine, la quarta fase è quella del dopoguerra: dal 1945 al 1970 – periodo di profondi cambiamenti economici, sociali e politici – i flussi migratori tornarono a essere particolarmente ingenti, soprattutto dal sud del paese. Principali mete transoceaniche furono America Latina e Australia, mentre in Europa si puntò in particolare verso Francia, Germania, Belgio e Svizzera. Gli emigrati italiani furono circa 7 milioni.
Il grande esodo che coinvolse l’Italia dall’unità d’Italia agli anni settanta del novecento vide quindi oltre 27 milioni di persone lasciare il paese, un numero esorbitante. Altro aspetto significativo fu il passaggio da un fenomeno piuttosto anarchico a una sua progressiva regolamentazione sia in entrata sia in uscita.
I nostri connazionali migranti hanno spesso dovuto affrontare una realtà dura, caratterizzata da gravi problematiche igienico-sanitarie, sociali ed economiche, che si manifestavano fin dai porti d’imbarco delle grandi città italiane – come Genova, Palermo o Napoli – e li accompagnavano nei paesi di destinazione. Definiti
promiscua feccia sporca, sventurata, pigra, criminale dei bassifondi italiani
e spesso bollati come una “razza inferiore” o una stirpe di assassini e mafiosi, gli emigrati italiani “pelle oliva” hanno fatto i conti con pregiudizi, stereotipi e un’intolleranza dilagante, manifestata nei paesi d’arrivo non solo dai comuni cittadini e dalla stampa, ma anche da politici e autorità.
A completare il quadro c’erano i bassi salari, la ghettizzazione, le condizioni di lavoro e di vita precarie, unite alla difficoltà di comunicare a parenti e amici la propria condizione. Il desiderio di mostrarsi come coloro che “ce l’avevano fatta”, di non deludere le aspettative dei propri cari, di mantenere in piedi il mito di una terra promessa e di una rivalsa fuori dai confini nazionali, portava spesso gli espatriati a celare le reali condizioni in cui versavano e a farsi protagonisti di una narrazione trionfalista, che poco aveva a che vedere con la realtà.
Ma all’estero molti nostri connazionali hanno anche trovato fortuna, integrandosi all’interno dei contesti sociali, economici e culturali d’accoglienza e, se una quota consistente di essi nel tempo ha fatto ritorno in patria, un dato colossale è quello che riguarda i discendenti italiani nel mondo (oriundi): si stima siano tra 60 e 70 milioni. Un’altra Italia fuori dall’Italia.
Italiani all’estero: quanti e dove sono
L’emigrazione degli italiani all’estero è quindi una realtà consolidata con origini lontane. Secondo il rapporto dell’AIRE – Anagrafe Italiani Residenti all’Estero, gli emigrati italiani nel mondo al 31 dicembre 2021 sono 5.806.068, un dato in continua crescita negli ultimi anni (+6% rispetto al 2019). Sono soprattutto in Europa (3,2 milioni) e America Latina.
Il paese con il maggior numero di emigrati italiani è l’Argentina, con 903 mila iscritti all’AIRE, e qui abbiamo raccontato le storie di emigrati italiani in Argentina. Seguono Germania (814 mila emigrati italiani), Svizzera (648), Brasile (528), Francia (457), Regno Unito (439), Stati Uniti (298) e Belgio (277 mila).
Attenzione però, parliamo però di presenze registrate e non di movimenti migratori veri e propri: i dati dell’AIRE vanno letti considerando che l’iscrizione è un diritto-dovere previsto non solo per coloro che lasciano l’Italia e si trasferiscono in un altro Stato per oltre 12 mesi, ma anche per i discendenti di italiani nati all’estero a cui è stata riconosciuta la cittadinanza, i quali potrebbero non essersi neanche mai recati in Italia.
Ciò spiega la grande presenza italiana in paesi che sono stati mete di emigrazione nel passato, seppure più della metà risulta iscritta per espatrio e quelle stesse mete continuano a essere anche oggi destinazioni particolarmente attrattive. Per restituire un quadro più completo i dati dell’AIRE vanno quindi associati ad altre fonti, nazionali ed estere.
Gli emigrati italiani di oggi
A partire dagli anni settanta da paese di emigrazione l’Italia diviene paese di immigrazione, seppure si conta ancora una media di 50 mila espatri all’anno sia verso mete nuove, sia verso quelle già battute.
Dopo un decennio con numeri intorno alle 30-40 mila partenze annue, gli emigrati italiani tornano a crescere a seguito della crisi economica di fine anni duemila, con un aumento significativo dei numeri a partire dal 2011, dando avvio a quella che viene definita “Nuova Emigrazione”, tuttora in corso, anche se nel 2020, causa pandemia, c’è stato un rallentamento. Secondo i dati Istat, nell’ultimo decennio (2011-2020) sono 980 mila gli italiani e italiane che hanno lasciato il nostro paese, di cui circa 250 mila con titolo di studio uguale o superiore alla laurea.
Alle 121 mila persone di cittadinanza italiana emigrate nel 2020 dobbiamo aggiungere anche circa 39 mila persone di cittadinanza straniera che risiedevano in Italia e che si sono trasferite in un altro paese, per un totale quindi di circa 160 mila cancellazioni anagrafiche. Parallelamente diminuiscono i rientri dei nostri connazionali e il saldo migratorio con l’estero si assottiglia: nel 2020 sono state appena 56 mila le iscrizioni anagrafiche dall’estero di cittadini italiani con un saldo negativo tra italiani emigrati e rientrati di circa 65 mila unità.
Il 20% degli emigrati italiani del 2020 ha meno di 20 anni. L’età media è di 32 anni per gli uomini e 30 per le donne; a emigrare sono prevalentemente uomini, il 54% del totale, ma fino ai 25 anni non si registrano differenze di genere. A proposito di titolo di studio, anche nel 2020 molti emigrati italiani sono istruiti: 1 su 4 ha almeno la laurea.
In termini relativi alla popolazione però, le regioni con il tasso di emigratorietà più alto sono Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Molise (oltre 3 emigrati ogni mille abitanti), seguite da Marche, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Pochi emigrati italiani partono invece da Puglia e Lazio.
Quanto alle destinazioni, continua il boom di partenze per il Regno Unito (+18% rispetto al 2019). La spiegazione data da Istat è che molti italiani in realtà già presenti nel Regno Unito ma che non avevano fatto la cancellazione dall’anagrafe italiana, lo abbiano fatto nel 2019 e 2020 per trasferire la residenza nel Regno Unito all’interno del cosiddetto “periodo di transizione” che precede la Brexit, periodo terminato il 31 dicembre 2020.
Va anche detto però che dal Regno Unito nel 2020 sono rientrare in Italia circa diecimila persone. L’effetto Brexit quindi si fa sentire, se consideriamo i rientri e il fatto che i nuovi inglesi hanno in realtà regolarizzato la loro posizione.
Dopo il Regno Unito, le destinazioni più gettonate sono Germania, Francia, Svizzera, Spagna e Brasile. Rispetto al 2019, in crescita Regno Unito e Belgio, stabili Francia e Spagna, in calo la Germania, mentre crollano i flussi extraeuropei verso Brasile e Cina, probabilmente causa pandemia.
Dal 1861 in poi la partenza "per terre assai lontane" è una esperienza di vita che ha segnato quasi ogni famiglia del Sud d'Italia. Fa parte del nostro vissuto, passato e presente, della nostra storia, un'esperienza mai interrottasi nelle nostre comunità. Da almeno sei generazioni nessun territorio, nessuna città, nessun paese, e quasi nessuna famiglia al di sotto del Garigliano, ne sono rimasti esclusi. Questa lunga consuetudine con il partire per lunghe distanze e anelare al ritorno, o costituire una nuova vita stabilmente lontana dai luoghi in cui si è nati e cresciuti, è sicuramente un tratto distintivo dell'essere meridionali in Italia, comune sia alla generazione di analfabeti che partì negli anni Ottanta dell'Ottocento, sia a quella di semianalfabeti partiti tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, sia ai diplomati e laureati che sono partiti all'inizio degli anni Duemila e continuano ad andare via. Diverse generazioni, anche se hanno avuto differenti percorsi di lavoro e di studio, sono stati accomunati dalla stessa necessità di andarsene per "diventare qualcuno". All'interno del popolo italiano, quello meridionale è stato errante per eccellenza. In Europa, i meridionali d'Italia condividono con gli irlandesi il primato di popolo più segnato dall'emigrazione. Essa è in effetti non solo la spia della tormentata costruzione delle basi economiche della nostra nazione e della complessa costruzione dell'edificio statuale ma anche del manifestarsi nel tempo di differenze territoriali sempre più marcate tra le varie parti dell'Italia.
La prima Italia unitaria
Eppure non sempre è stato così nella nostra storia nazionale, che cioè l'emigrazione in Italia e dall'Italia fosse un problema quasi esclusivamente delle famiglie meridionali. Anzi. Fino agli anni settanta del Novecento almeno una regione del Nord, il Veneto, è stata terra di emigrazione per eccellenza in almeno tre delle quattro ondate emigratorie che hanno riguardato l'Italia dopo la sua unione, e cioè quella tra fine Ottocento e inizio del Novecento, quella del periodo fascista, quella apertasi nel secondo dopoguerra tra gli anni Cinquanta e Settanta (quando comincia nettamente a meridionalizzarsi l'emigrazione italiana) mentre quella cominciata a ridosso degli anni Duemila è quasi esclusivamente composta da meridionali, con una componente anche di laureati del Nord che si indirizzano all'estero. Fino agli anni Quaranta del Novecento è il Veneto la regione in testa alle statistiche dell'emigrazione, seguita da Sicilia, Campania e Calabria. Dal 1876 al 1913 dal Veneto partono 1.822.000 persone, ed è il Piemonte - cosa a prima vista sorprendente - al secondo posto di questa classifica del primo cinquantennio unitario con 1.540.000 partenti (tra cui il papà e i nonni di papa Bergoglio) seguiti dalla Campania (1.475.000), dalla Venezia Giulia (1.407.000), dalla Sicilia (1.352.000) e dalla Lombardia (1.342.000). Dalle altre regioni italiane del Nord (la Liguria, il Friuli, il Trentino) e di quelle del Centro e del Sud (Marche, Calabria, Basilicata, Abruzzo e Puglia) vanno via un altro milione di persone. Tra il 1875 e il 1925 un terzo della popolazione del Molise emigra. E in rapporto al numero di abitanti, l'emigrazione calabrese, abruzzese e lucana è davvero impressionante.
Lo spopolamento cronico dei comuni diventa così una costante nell'appennino meridionale da un secolo e mezzo. Una poesia di Franco Arminio rende l'idea perfettamente. "Nel 1901 Miche Fede partì per gli Stati Uniti/ con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./ Nel 1929 Florindo Fede partì per il Brasile/con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./Nel 1947 Agostino Fede partì per la Francia/ con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./ Nel 1960 Salvatore Fede partì per la Svizzera/ con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./ Oggi al paese nessuno sa più cucire/ e l'emigrazione dei sarti è finita." Dell'emigrazione calabrese ha parlato in alcuni suoi romanzi Mimmo Gangemi (come nello splendido La Signora di Ellis Island). Singolare la diversità tra le due grandi isole italiane, con la Sicilia che nel corso di un secolo e mezzo è in testa alla classifica italiana dell'emigrazione all'estero, mentre la Sardegna è l'ultima. Se fino alla metà dell'Ottocento pochissimi emigravano dalla Sicilia, si verifica un cambiamento radicale alla fine dell'Ottocento. Saranno in gran parte i siciliani tra il 1880 e il 1910 a sostituire temporaneamente la manodopera africana e asiatica nelle piantagioni della Louisiana, del Brasile e dell'Australia. E molti provenienti dalle solfatare siciliane in crisi andranno a lavorare nelle miniere dell'Alabama e nel West Virginia. È molto probabile che questo esodo di massa sia una conseguenza della sconfitta dei Fasci siciliani, di quel movimento di radicale contestazione dei feudali rapporti nelle campagne che l'Unità d'Italia non aveva affatto scalfito come invece si era illuso il mondo contadino dell'isola.
Una influenza avrà anche la riduzione del costo del viaggio nelle Americhe grazie ai bastimenti a vapore che partivano dal porto di Palermo. Così come era forte la spinta a sottrarsi alla coscrizione militare obbligatoria. Invece l'emigrazione degli anni Cinquanta segue la sconfitta della occupazione delle terre e i massacri di capi lega contadini e bracciantili da parte della mafia. Nello stimolare la partenza dal Nord Italia per le Americhe, oltre alle condizioni di disagio economico nelle campagne, inciderà anche la vicinanza con il porto di Genova. Se poi si analizzano anche i dati di una regione che è poco citata nelle ricostruzioni storiche sull'emigrazione quale l'Emilia Romagna, si scopre che dal 1876 al 1976, cioè nel giro di un secolo, ben 1.200.000 persone sono partite da quei territori.
Dunque, nel primo cinquantennio della storia unitaria l'emigrazione ha avuto connotati fortemente settentrionali, mentre nel cinquantennio successivo essenzialmente meridionali. E tra le due guerre le cifre ripartite tra regioni sono ancora più sbalorditive: primo è il Piemonte con 533.000 partenze, segue la Lombardia con 498.000, poi la Sicilia con 449.000, il Veneto con 392.000, il Friuli Venezia Giulia con 378.000 e la Campania con 319.000. Tra le regioni dell'Italia centrale spicca il ruolo delle Marche per un numero consistente di partenze nelle prime delle due ondate. I marchigiani sono oggi ben l'11% della presenza italiana in Argentina; e da Recanati partì nel 1883 il trisavolo di Leo Messi. All'epoca l'Argentina era uno dei paesi più ricchi al mondo.
Una migrazione diffusa
Ma non solo nei primi 50 anni della nostra storia unitaria l'emigrazione è stata un'esperienza diffusa dalle Alpi alla Sicilia, lo era già prima del 1861. L'emigrazione italiana è stato un problema plurisecolare che è esploso in maniera dirompente solo dopo l'Unità d'Italia. La presenza di ben sette Stati all'interno di un territorio abbastanza ristretto imponeva lo spostamento di manodopera tra una parte all'altra, lungo l'arco alpino e appenninico, lungo le pianure, lungo le coste, lungo il corso dei fiumi, e ciò obbligava a passare da uno Stato all'altro, di oltrepassare dei confini anche se le distanze geografiche erano tutto sommato limitate.
Non va sottovalutata anche l'emigrazione per ragioni politiche a causa delle guerre permanenti tra le città-Stato e quella per cause religiose, che non assunse comunque la tragicità dello scontro tra cattolici e protestanti e della persecuzione degli ebrei, causa di diaspore di massa in altri territori europei. Nel Regno delle Due Sicilie gli spostamenti si limitavano all'interno dello stesso Stato data la sua maggiore estensione geografica (era il più grande tra quelli preunitari) ed erano caratterizzati dalla transumanza dei pastori dalle montagne alle pianure, dai lavori stagionali soprattutto nelle piane e dalla grande attrazione che esercitava in tutto il Regno la sua capitale, Napoli, la città di gran lunga più popolata d'Italia fino al 1931 e per diversi secoli terza città d'Europa dopo Londra e Parigi. Gli spostamenti erano anche più lunghi e si indirizzavano verso nazioni più grandi: per i liguri e i piemontesi l'attrazione si rivolgeva verso la Francia e il Belgio, per i lombardi verso la Svizzera e il Centro-Europa, per i veneti, i trentini e i friulani verso l'impero austro-ungarico e i territori tedeschi, con i porti di Genova, Venezia, Napoli e Palermo che già si erano aperti agli spostamenti transoceanici da alcuni decenni prima dell'Unità d'Italia. Poi arriverà, appena dopo l'unificazione, la grande attrazione di massa verso le Americhe del Nord e del Sud (all'indomani dell'abolizione della schiavitù e della fine della guerra civile americana) seguita da quella per l'Australia e il Canada, e negli ultimi decenni verso l'Inghilterra (prima della Brexit).
Le quattro fasi dell'emigrazione italiana
Nelle quattro grandi ondate di emigrazione della storia italiana, uno specifico luogo geografico di volta in volta ha fatto da magnete, con condizioni, aspettative e motivazioni di chi partiva del tutto diverse. Gli italiani nel mondo erano conosciuti soprattutto come abili braccianti e come ottimi manovali nell'edilizia, e nel secondo dopoguerra soprattutto come esperti minatori e come bravi operai alle catene di montaggio, mentre le italiane erano considerate abili tessitrici.
A fine Ottocento e fino agli anni venti del Novecento furono le Americhe la grande calamita dell'emigrazione italiana, mentre prima del 1870 erano stati gli irlandesi e i tedeschi a monopolizzare le partenze dall'Europa verso gli Usa. Dal 1820 al 1860 solo 12.700 italiani erano emigrati negli Usa, in particolare siciliani e liguri, mentre i liguri furono i primi ad essere presenti in America latina a partire dalle città portuali sui fiumi. Durante il fascismo furono le colonie all'estero e le zone bonificate all'interno della penisola a fare da attrazione, mentre tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento fu il triangolo industriale del Nord-Italia insieme alla Germania occidentale e alla Svizzera (e in misura minore, ma con cifre di tutto rispetto, la Francia e il Belgio). Dopo un calo tra gli anni Ottanta e Novanta l'emigrazione è ripresa tornando a cifre di nuovo statisticamente interessanti anche senza raggiungere quelle delle ondate precedenti. Insomma, i cicli migratori dall'Italia verso altre nazioni e continenti (e gli spostamenti al suo interno) sono anche una fotografia economica e sociale delle varie fasi del suo sviluppo.
La settentrionalizzazione dell'emigrazione del primo cinquantennio post-unitario verrà superata appena si apre e si consolida lo sviluppo industriale nel triangolo Torino-Genova-Milano, mentre per il decollo economico del Veneto (e la conseguente riduzione drastica dei suoi flussi in uscita) bisognerà aspettare gli anni sessanta-settanta del Novecento. Il Sud invece rappresenta l'elemento di continuità nei quattro cicli dell'emigrazione italiana, con una riduzione solo dal 1975 alla fine definitiva dell'Intervento straordinario del 1992. Ed è proprio con il consolidarsi delle Regioni e con l'accantonamento delle politiche nazionali verso il Sud (sostituite dai fondi comunitari) che si riapre una nuova fase di emigrazione meridionale dalle caratteristiche del tutto nuove, come vedremo. I meridionali saranno il 13% degli espatri nel 1876-1880, il 27% nel periodo 1881-1890, il 33% tra il 1891 e il 1900 e ben il 47% nel decennio 1901-1910. Dal 1876 al 1900 è il Nord a detenere il primato dell'emigrazione all'estero (veneti, piemontesi e friulani soprattutto) dal 1901 in poi saranno le regioni del Sud (siciliani, campani e calabresi soprattutto). E se in linea di massima si può dire che i settentrionali puntavano più verso le altre nazioni europee, i meridionali più verso le Americhe.
Quella meridionale, quindi, rappresenta l'elemento di continuità di questa rapida storia dell'emigrazione italiana, perché non succederà niente di così strutturale nella sua economia da annullare il bisogno di partire per chi non trova occasioni per realizzare le proprie aspirazioni lavorative e di vita.
35 milioni di emigrati dall'Italia e in Italia
In questa ricostruzione delle cifre dell'emigrazione italiana all'estero e al suo interno ho consultato gli scritti di Michele Colucci, in particolare la Guida allo studio della emigrazione italiana scritto con Matteo Sanfilippo e da L'emigrazione italiana. Storia e documenti scritto con Stefano Gallo. Tra il 1871 e il 1914 circa 14 milioni di italiani sono emigrati all'estero. L'80% di chi partiva era di sesso maschile, più della metà aveva tra i 15 e i 34 anni, i tre quarti viaggiavano da soli e senza essere accompagnati dalla famiglia. Il soggiorno durava dai 3 ai 4 anni, a volte si protraeva per 8-10 anni e spesso si tramutava in emigrazione senza ritorno. Si è trattato, dunque, di una lunga rivoluzione silenziosa, che ha visto in gran parte protagonisti i contadini, forse dell'unica rivoluzione contadina riuscita in Italia, o come scrisse giustamente Gioacchino Volpe del "Risorgimento dal basso e spontaneo dei ceti popolari".
Un fenomeno, quello dell'emigrazione italiana, di lungo periodo se è vero che durante il fascismo altri milioni si spostano (interessante il fatto che in questo periodo storico, dal 1919 al 1939, emigrano o si spostano più centro-settentrionali che meridionali, rispettivamente 2 milioni e mezzo dal Centro-Nord e un milione e mezzo dal Sud). Dal 1955 al 1970 altri 9 milioni di abitanti si trasferiranno dal Sud al Nord e nel quindicennio 2002/2017 emigrano dal Mezzogiorno due milioni di persone per la stragrande parte giovani sotto i 35 anni e per un terzo laureati o altamente qualificati. Il decennio 1970-1980 sancirà la fine dell'emigrazione di massa con il 1973 a fare da spartiacque in quanto in quell'anno per la prima volta dopo decenni e decenni ci sarà un saldo positivo nel movimento migratorio, con i rientri dai luoghi di espatrio che superano le partenze. Dunque, se calcoliamo solo quelli che si recano all'estero nel corso di un secolo (1870-1970) si può parlare di 25 milioni di persone che hanno lasciato il nostro Paese per lavorare in altri continenti o in altre nazioni europee facendo dell'Italia il Paese occidentale che ha il primato assoluto nell'aver "esportato" il maggior numero dei suoi concittadini.
È un dato sorprendente perché corrisponde esattamente al numero complessivo che l'Italia aveva all'atto della sua unificazione nel 1861, come ricorda Donna R. Gabaccia. Tra questi 25 milioni di partenti si debbono considerare quelli che rientravano e poi ripartivano e ciò poteva avvenire più volte nel corso della vita. Dietro l'Italia c'è la Gran Bretagna con 11 milioni di emigranti, ma in questo dato incide l'emigrazione di massa degli irlandesi (ben 4 milioni) e le possibilità offerte dalle colonie per gli inglesi. In ogni caso gli inglesi non hanno subito discriminazioni dai paesi in cui emigravano. Se poi aggiungiamo gli spostamenti all'interno dell'Italia, in particolare quelli lungo l'asse Nord -Sud, si può parlare tranquillamente di una popolazione di 35 milioni che complessivamente si è trasferita in luoghi diversi da dove è nata e cresciuta, con una maggioranza schiacciante di meridionali.
La peculiarità dell'Italia nella storia dell'emigrazione europea è il primato degli spostamenti all'estero o interni, la graduale meridionalizzazione di quelli esteri e poi l'esclusività della direzione Sud-Nord tra quelli interni, cosa diversa dalle caratteristiche assunte in altre nazioni dove non si è verificata una così massiccia partenza da una specifica e ampia zona geografica e dove negli spostamenti interni le direzioni di marcia sono multidirezionali e non unidirezionali come in Italia. I Paesi dove oggi si concentra la maggiore presenza di italiani all'estero sono nell'ordine l'Argentina (884.187) la Germania (801.082) la Svizzera (639.508) il Brasile (501.482) la Francia (444.113), il Regno Unito (412.382) Gli Stati Uniti (289.685) il Belgio (275.948) la Spagna (203.268) l'Australia (154.532) il Canada (142.980) il Venezuela (106.447) e l'Uruguay (106.460) su di un totale di 5.652.089, comprese altre nazione qui non segnalate. Mentre le regioni italiane dove ci si sposta di più da parte dei meridionali negli ultimi anni sono l'Emilia-Romagna, il Lazio (soprattutto Roma), la Lombardia, il Veneto.
Nel Sud l'emigrazione supera l'immigrazione
Ma la cosa più significativa della quarta ondata migratoria è il fatto che essa si è svolta e si sta svolgendo mentre la nostra è diventata nazione di immigrazione dall'estero, in particolare di quella proveniente dall'Est Europa (dopo la fine dei regimi comunisti) dall'Africa, dalla Cina e dall'America latina. Ed è assurdo che in una nazione segnata profondamente da chi partiva e da chi parte ancora oggi, abbia assunto centralità politica solo il tema di chi arriva da altre parti del mondo, come se ci fosse stata un'opera di totale rimozione storica. È un fenomeno questo da studiare, che ci può dire dell'Italia degli ultimi anni molto più di tanti saggi politici. Gian Antonio Stella ha dedicato due libri all'argomento (L'orda. Quando gli albanesi eravamo noi e Odissee), altri autori vi hanno scritto romanzi e saggi e la cinematografia ha prodotto bellissimi film, ma il tema non riesce ad imporsi rispetto alla centralità che ha assunto l'immigrazione. Ma, è noto, ciò che avviene al Sud fa poca opinione se non riguarda la criminalità. Eppure si tratta di cifre complessive preoccupanti.
Le rimesse
Nell'emigrazione si mischia il dolore dell'abbandono con l'aspettativa di migliorare la propria vita e quella dei propri cari lasciati nei luoghi natii. E l'offesa delle discriminazioni che gli italiani. hanno conosciuto nelle loro peregrinazioni, negli Usa più che in America latina, Canada e Australia, in Svizzera e Germania più che in Francia, alla pari degli africani e degli asiatici. Discriminazioni che poi i meridionali conosceranno nell'emigrazione nel Nord Italia. L'emigrante è un addolorato speranzoso e motivato, ha una grande voglia di cambiare radicalmente la propria vita e questa sua carica emotiva e fisica si riflette sia nell'economia del Paese dove emigra sia in quello che lascia attraverso le rimesse. Chi è disposto a tutto per uscire dalla miseria (e per diventare qualcuno attraverso il lavoro) si trasforma in un capitale prezioso per le società che lo sanno ben utilizzare. L'enorme peso che le rimesse degli emigranti hanno svolto per le famiglie rimaste nei paesi (e in genere per l'economia italiana) è stata anch'essa sottovalutata.
Nell'emigrazione accanto alle motivazioni personali di chi parte, bisogna valutare anche quelle di coloro che all'epoca governavano l'Italia, che si riassumevano in una essenzialmente: alleggerire la pressione del mondo del lavoro che non trovava sbocchi e allentare le tensioni sociali. Grazie a queste due esigenze (personali e politico-sociali) l'Italia è potuta crescere nei due momenti decisivi della sua storia, a fine Ottocento e dopo la Seconda guerra mondiale. Se la nostra è diventata economicamente una delle nazioni più sviluppate in Occidente lo deve anche ai suoi emigranti.
Solo nel 1970 le loro rimesse (cioè i soldi che essi trasferivano nelle banche o direttamente ai loro familiari) ammontavano a un miliardo di dollari, una cifra enorme, fondamentale per la nostra bilancia dei pagamenti e indispensabile per la tenuta economica dei territori da cui erano partiti. Nel 1980 solo in Sicilia le rimesse furono di 213.027 milioni di lire. E non va dimenticato che tra il 1896 e il 1912 le riserve auree si triplicarono grazie alle rimesse soprattutto degli "americani". Si può dire tranquillamente che l'emigrazione è stata alla base del decollo economico di fine Ottocento/inizio Novecento del triangolo industriale del Nord ed è stato alla base del miracolo economico italiano tra gli anni Cinquanta/Settanta del Novecento.
Secondo diversi storici ed economisti furono le rimesse degli emigranti a fornire i mezzi finanziari per l'avvio della industrializzazione italiana. Franco Barbagallo lo ha ricordato nel suo libro La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860. Riportando studi di Franco Bonelli lo storico napoletano ricorda come il salvataggio della Fiat nel 1907, colpita da una crisi di liquidità, fu operata dalla Banca d'Italia utilizzando le rimesse spedite tramite il Banco di Napoli dagli emigrati meridionali delle Americhe. Senza quelle risorse la Fiat forse non avrebbe poi assunto un ruolo centrale nell'economia italiana. La Fiat salvata dagli emigranti meridionali è un pezzo di storia che andrebbe ricordato per ribadire le interconnessioni che ci sono sempre state tra la crescita del Nord e il contributo del Sud. Ma l'emigrazione fu importante anche dal punto di vista culturale e del cambiamento di costumi di vita in molti luoghi d'Italia, in particolare nel Sud.
La "mentalità" dei diritti e dei doveri che i lavoratori avevano acquisito all'estero ruppe la subordinazione feudale e creò un clima di autonomia personale e familiare e soprattutto un'apertura di orizzonti che quelle società chiuse non conoscevano da secoli. Un proverbio della Basilicata dice molto di questa novità economica/sociale/culturale: "Li mugliere dell'americane nun mangiane cchiù patane" (le mogli degli americani non mangiano più patate).
Questione meridionale ed emigrazione
L'emigrazione è la vicenda umana che ha più ha segnato la storia "civile" dell'Italia; nel Sud ancora più marcatamente perché si è trattato di un elemento di assoluta continuità, non un'eccezione di un periodo economico difficile, non un fatto limitato nel tempo, ma dato strutturale, un metodo di sopravvivenza e al tempo stesso di riuscita sociale dalla seconda metà dell'Ottocento ad oggi.
La questione meridionale si è manifestata e resa evidente nella storia italiana grazie all'emigrazione permanente dei suoi abitanti. Secondo un dato recente, metà degli italiani all'estero sono meridionali, un terzo del Nord e un decimo del Centro. Su 10 italiani all'estero 2 sono di origine siciliana, 1 campana, 1 pugliese, e 1 calabrese con una discreta presenza di abruzzesi, molisani e lucani. Dei settentrionali, la maggior parte sono veneti, trentini e friulani, mentre elevati sono stati i rientri di piemontesi, lombardi e liguri; tra le regioni dell'Italia centrale, i marchigiani sono i più numerosi all'estero. E in una nazione in cui da decenni la questione dell'immigrazione ha accantonato o rimosso il lungo passato di emigrazione dei suoi abitanti, in particolare nel Sud i numeri degli emigranti (quelli che partono) continua a superare il numero degli immigrati stranieri che vengono a risiedervi. Cioè, chi se ne va non è sostituito da flussi migratori di stranieri negli stessi territori che si spopolano, in quanto, com'è noto e facilmente comprensibile, gli immigrati stranieri scelgono le regioni del Centro-Nord per insediarsi stabilmente perché attratti dalle maggiori possibilità di lavoro.
Lo spopolamento del Sud
Secondo la Svimez, il Sud nel 2065 perderà nel complesso 5 milioni di abitanti, cioè per la prima volta nella sua storia l'emigrazione non sarà compensata né da un alto tasso di natività, come è avvenuto nei cicli emigratori precedenti, né da afflussi di popolazione proveniente dall'esterno. Se a questi dati aggiungiamo quelli relativi al graduale spopolamento delle università meridionali dovuto al fatto che ci sposta verso quelle sedi collocate in territori in grado di dare possibilità lavorative immediate a chi vi si laurea, il quadro è completo. Su 685.000 studenti universitari meridionali in Italia (dati del 2020) ben il 25,6% studia nelle università del Centro-Nord. In numeri assoluti, parliamo di 175.000 ragazzi. Dal Sud ci si sposta sia per lavorare sia per studiare, cioè va via "la meglio gioventù" con un costo sociale, economico, civile incalcolabile. Sempre secondo la Svimez, questo spostamento di popolazione universitaria dal Sud al Centro-Nord nel periodo 2007-2018 ha comportato una riduzione del tasso di crescita del Pil meridionale di quasi 2 punti e mezzo, pari a una media annuale dello 0,20%. Tenendo conto che in tale periodo nel Sud si è registrata una caduta del Pil di quasi il 10%, appare chiaro che se tutti gli studenti meridionali studiassero in università del posto ciò avrebbe dimezzato la perdita di Pil. Ecco cosa vuol dire l'emigrazione universitaria, che è l'ultima aggiornata e inedita versione della tradizionale emigrazione meridionale. Insomma, se vanno via i laureati vuol dire che ci si priva di una parte della potenziale classe dirigente di domani, una sottrazione di possibilità e uno spreco di futuro davvero grave. Dal Sud sta andando via ora una parte della sua élite professionale e culturale.
I numeri però sono molto probabilmente sottostimati, in quanto non tutti gli espatriati effettuano prontamente la cancellazione anagrafica e la registrazione nel paese d’arrivo, come abbiamo visto nel caso del Regno Unito.
Inoltre, è interessante anche il fenomeno dei nuovi cittadini italiani che emigrano. Si tratta di persone italiane che hanno un’origine straniera e che rientrano al luogo di origine o emigrano in un paese terzo dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana. Sono circa 33 mila i nuovi italiani emigrati nel 2020, di questi oltre il 30% è nato in Brasile, il 9,5% in Marocco, il 6% in Pakistan, il 5% in Bangladesh.
Anche per questa tipologia di emigranti i paesi dell’Unione Europea sono le principali mete con una preferenza per il Regno Unito per i nati in Asia (91%), per la Francia per i nati in Africa (50%), per la Germania per i cittadini italiani nati in altri paesi Ue.
Nuove categorie di emigrati italiani
Anche se sono la maggioranza, a lasciare l’Italia non sono solo i più giovani. Oltre agli spostamenti di singoli e intere famiglie con figli al seguito, assistiamo in questi anni all’emersione di nuove categorie di migranti:
I migranti maturi disoccupati: è la categoria che registra la crescita più importante, si tratta di ultracinquantenni che si spostano per far fronte alla precarietà lavorativa e all’assenza di prospettive in Italia. Devono sostenere economicamente la famiglia e sono ancora lontani dalla pensione, hanno quindi bisogno di accumulare gli anni di contributi mancanti per arrivarvi.
I migranti genitori-nonni ricongiunti: hanno un’età avanzata e seguono i propri figli e nipoti, spesso per facilitare la gestione familiare nel nuovo paese.
I migranti di rimbalzo: emigrati di ritorno, cioè persone che sono rientrate in Italia dopo essere state all’estero a lungo ma decidono di ripartire, spesso per bisogni familiari o perché l’esperienza di rientro ha deluso le loro aspettative.
I migranti previdenziali: uomini e donne in pensione che si spostano verso paesi in cui la vita costa meno rispetto all’Italia, per aumentare il proprio potere d’acquisto. La loro scelta non è però soltanto economica: sono particolarmente attratti dal clima e dal contesto socio-culturale dei luoghi in cui si trasferiscono.
Un quadro quindi quello degli emigrati italiani con una dimensione storica molto radicata, ma anche con una dinamicità che rende gli italiani tra i più grandi popoli migranti di ieri e di oggi.